Il Piccolo-che-sta-crescendo quest'anno ha finito la quinta elementare. Del suo disagio scolastico ho già parlato in passato. Sempre con fatica, senza nascondere il dolore e il senso di colpa di fronte alla mia incapacità, nonostante gli sforzi quotidiani, di aiutarlo a superare le sue difficoltà. Sì perchè il mio bambino è un bambino con DSA. Ha, cioè, un Disturbo Specifico di Apprendimento. I bambini DSA, come lui, sono bambini come tutti gli altri: svegli, capaci, competenti, curiosi, finchè non arrivano a scuola e, d'un tratto, si scoprono completamente inadeguati e disarmati di fronte a compiti e richieste quotidiane per loro insormontabili, che gli altri, invece, eseguono con facilità. Attività come leggere, scrivere, calcolare, che la maggior parte dei loro compagni apprende in modo spontaneo e naturale risultano loro estremamente difficoltose. Il fallimento che ne segue e la frustrazione dovuta ai molteplici e infruttuosi tentativi incidono negativamente sulla fiducia in se stessi e sulla motivazione ad apprendere. Spesso poi chi sta loro intorno, educatori, insegnanti, genitori, compagni, poichè non possono negare le loro evidenti capacità intellettive e le potenzialità che emergono nonostante tutto, finiscono, frettolosamente, per spiegare il ritardo scolastico con la mancanza d'impegno. Solitamente di un bambino così si dice che è intelligente ma non studia. Colpevole dunque! Svogliato! E pigro!
Questi cinque anni sono stati per mio figlio un inferno; tra pianti e rimproveri, insuccessi ed emarginazione, frustrazioni ed incomprensioni, tra senso d'impotenza e voglia di mollare, stanchezza e senso di colpa per le aspettative deluse. Mai un successo, mai una gratificazione e neppure un riconoscimento per lo sforzo e l'impegno messi.
Quest'anno però pareva proprio fosse arrivato il momento per il mio Piccolo-che-sta-crescendo di ottenere, finalmente, una piccola rivincita. Iscritto al corso di atletica, per tutto l'inverno, infatti, si era allenato nella corsa, anche con il freddo e sotto la pioggia. Grazie al suo fisico minuto ma scattante e all'allenamento, durante le prove per le Piccole Olimpiadi della scuola era risultato tra i più veloci della sua età, per cui tutto faceva presagire che finalmente sarebbe riuscito ad esser BRAVO in qualcosa, per la prima volta... E magari il più bravo!
E' la mattina della gara, nonostante minacci pioggia e soffi imperterrito un vento freddo, gli spalti attorno al campo di atletica sono pieni di genitori-tifosi, armati di macchine fotografiche. I bambini vengono allineati sulla linea di partenza, ciascuno nella propria corsia, pronti per il segnale di partenza. Il Piccolo-che-sta-crescendo è particolarmente in ansia, aspetta questo momento da così tanto tempo... Un signore attempato e panciuto dà il via facendo esplodere un colpo. Il Piccolo-che-sta-crescendo scatta via velocissimo, davanti a tutti. E' il più piccolo, una pulce in mezzo ai suoi compagni, ma anche il più veloce. Fa qualche metro, davanti a tutti gli altri. Poi, d'improvviso, si blocca: la sua scarpa destra è uscita dal piede. Prova a continuare la corsa con la scarpa mezza tolta ma è inutile; arriva ultimo, zoppicante, avvilito e pieno di imbarazzo. L'umiliazione e la delusione stampate in faccia.
Cos'è accaduto? Come si spiega che il Piccolo-che-sta-crescendo è riuscito a fallire anche in ciò in cui era bravo e per cui si era allenato a lungo? E' stata solo colpa di un laccio male annodato? Io non credo. Io credo invece che per bambini così, che non hanno alcuna fiducia o stima in se stessi, che sono abituati ad ottenere solo frustrazioni e sconfitte, che hanno di sè un'mmagine negativa e fallimentare sia più difficile affrontare un successo che subire il solito, inevitabile insuccesso (in quello oramai sono esperti). Per mio figlio, vincere non voleva dire semplicemente tagliare il traguardo per primo. Vincere significava interrompere un'infinita ed ineluttabile catena di delusioni e fallimenti, significava riaprire la porta alle speranze di affermazione di sè, alle aspettative di succeso. Vincere avrebbe provocato una temibile onda sismica che avrebbe travolto le consolidate certezze della propria inadeguatezza ed incompetenza, vincere avrebbe causato un terremoto emotivo che avrebbe ribaltato l'immagine di sè e delle proprie capacità.
In questi casi, in difesa dello status quo, per mantenere un equilibrio basato su ciò che, anche se non gratificante, ci è oramai abituale, entrano in gioco i sabotatori interni, cioè le aspettative negative, le paure recondite, l'ansia di prestazione, la disistima, il bisogno di ciò che ci è noto e abituale, che ci impediscono di rompere il cerchio, di essere diversi, migliori, da ciò che si crede. Inconsapevolmente, ci impediscono di esplicare al meglio le nostre qualità, di credere nelle nostre risorse facendoci perdere una scarpa durante la corsa della nostra vita.
Sabotatori così li abbiamo tutti. Sono i limiti che ci autoimponiamo, le barriere che innalziamo a nostra difesa, i legacci che ci impediscono di spiccare il volo. Li abbiamo generati noi, in nome della nostra stabilità emotiva, della nostra tranquillità. Solo noi possiamo smascherarli e disarmarli. Oppure inciamperemo sempre a un passo dal traguardo.